La differenza tra il medico e la macchina? La fa la relazione di cura

Un tema non tipicamente clinico, ma che ha suscitato un grande interesse, quello del convegno Medicina Meccanica che si è svolto sabato 18 marzo all’Istituto Berna di Mestre, organizzato dall’OMCeO veneziano e dalla Fondazione Ars Medica, in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari e la LAI, Libera Associazione di Idee.
Un tema, però – come ha spiegato Ornella Mancin, presidente della Fondazione, introducendo l’evento – che nasce da una serie di riflessioni che si sono sviluppate nel tempo attraverso le serate dei mercoledì filosofici e che partono da una premessa fondamentale: la tecnica e la tecnologia hanno ormai invaso la professione medica, marciano a una velocità incredibile e i camici bianchi spesso faticano a starci dietro.
Tante, allora, le domande che sorgono e a cui in questo laboratorio di idee si è cercato di dare una risposta: come il medico affronta questo cambiamento? Il medico può essere sostituito dalla macchina? Cosa differenzia il medico dalla macchina?
Due le idee forte emerse durante le relazioni: a fare la differenza è e resta la relazione di cura, cioè quel qualcosa di speciale che si instaura tra il medico e il proprio paziente, l’umanità, insomma, che il professionista mette in gioco nel proprio lavoro e la necessità di non subire il cambiamento, ma di esserne consapevoli e governarlo.
Due anche le sessioni in cui è stata divisa la mattinata, a cui è seguita un’intensa e partecipata discussione plenaria: nella prima parte è stato presentato un resoconto delle idee e dei dubbi emersi durante i mercoledì filosofici attraverso il confronto tra Gabriele Gasparini, neuroradiologo e vicepresidente della Fondazione Ars Medica, Marco Ballico, medico, psicoterapeuta, docente allo Iusve e membro del comitato scientifico della stessa Fondazione, e la filosofa Bruna Marchetti; nella seconda spazio alle relazioni frontali con i due esperti, il sociologo Ivan Cavicchi e il filosofo Luigi Vero Tarca.

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«Queste riflessioni, queste giornate – ha spiegato nel suo saluto introduttivo Giovanni Leoni, presidente dell’OMCeO lagunare – sono la risposta a chi vede nel medico un mero esecutore di prestazioni specialistiche. E invece, come tutti i non medici, anche noi siamo degli esseri pensanti. Le vicende dei nostri pazienti lasciano una traccia nel nostro animo, anche in chi appare più rigido. Parlando con i colleghi spesso sento un senso di spaesamento, di disagio, una perdita di punto di riferimento. Noi allora cerchiamo di dargliene, di dare un senso di comunanza».
«Bisogna uscire dalla logica della difesa a tutti i costi – ha sottolineato, invece, Maurizio Scassola, vicepresidente della FNOMCeO – dal concetto di accerchiamento della professione, di sofferenza tout court senza riuscire ad orientarsi in questi nuovi orizzonti. La nostra storia degli ultimi anni è una storia di accompagnamento a competenze al di fuori della nostra, parlo ad esempio del rapporto con i filosofi. Il percorso per noi è ineludibile: il confronto con l’altro è salvifico, positivo, ci salva dall’accerchiamento e ci consente di essere pro-attivi, determinanti, soggetti politici e sociali. Un impegno per il miglioramento di noi stessi e del rapporto con le persone. Così si fa il salto di qualità: non dobbiamo più lamentarci, ma porci come soggetti che affrontano le questioni e danno anche qualche soluzione».

La figura del medico è cambiata, ma non abbastanza: la prima delle riflessioni emerse dai mercoledì filosofici e rilanciate da Gabriele Gasparini. «La tecnologia che applichiamo – ha aggiunto – è uno dei fattori della crisi, ma ha sempre un rovescio della medaglia, una possibile conseguenza negativa. Più la tecnologia evolve, più riduce i costi, più diventa facilmente disponibile, più diventa abusata. In radiologia e in laboratorio, ad esempio, la figura del medico appare sempre meno importante: la tecnologia sostituisce il medico. Noi radiologi, talvolta, abbiamo la percezione di far parte della macchina».
Il rapporto del medico con la propria umanità al centro, subito dopo, dalla riflessione della filosofa Bruna Marchetti, che argomenta il suo pensiero partendo dal racconto del mito di Prometeo – che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini – e spiegando l’importanza del mito anche nella società attuale, «perché – ha spiegato – dà le vie da seguire nella riflessione, facendoci uscire dagli schemi secondo cui tutti ragioniamo, mostrando strutture altre, diverse. Il mito spande chiarezza sulle costanti, quelle che potremmo chiamare le leggi universali, e che vanno però reinterpretate perché possono far fare passaggi epocali».
Il medico, allora, deve staccarsi o no dalla propria umanità? «Alcuni ci dicono – ha sottolineato – che se ne devono staccare perché altrimenti non ce la fanno, perché devono interpretare i dati oggettivamente, per riuscire a vivere bene al di fuori della loro professione. Dal mio punto di vista, invece, il medico deve indossare la propria umanità fino in fondo: ciò che salva è proprio l’unione di tecnica e umanità».
Ma è proprio così necessario – la provocazione lanciata da Marco Ballico – partire dall’umanità? Non potremmo fregarcene restando sulle cose che vediamo, che tocchiamo, che conosciamo? Perché complicarci la vita da soli? Se la macchina può aiutarci, ci guarisce, perché non usarla? Un medico è come un meccanico: perché dobbiamo diventare pazzi e sentirci alienati su qualcosa che è semplice?
«Così il pensiero – ha aggiunto – diventa un accessorio negativo, che complica la vita. Noi, invece, che siamo visionari, vogliamo metterci in trincea, vogliamo difenderci dalla professione che andrebbe ripensata, ricontestualizzata. Ma ci vuole un pensiero che sia prima dell’agito perché quello che noi facciamo di solito è modellare un pensiero che teorizza quello che abbiamo già fatto».
Alla base dei ragionamenti un’altra considerazione illustrata da Bruna Marchetti: i mondi del medico e della macchina non sono separati, il clone non è l’altro, è quello che guarda attraverso gli occhi del medico, perché dietro la macchina c’è il medico che studia il paziente. Se il medico fa della tecnica il proprio dio, non cambia solo un po’ la sua mentalità, cambia l’intero cervello, il suo intero modo di essere.
«L’umanità – hanno concluso i tre relatori – ci fa recuperare la relazione, ciò che mette in comunicazione profonda due persone. La relazione è qualcosa che la macchina non può mettere in campo: la relazione va percepita di più, è ciò che fa la differenza. Così la macchina torna a essere solo viti, bulloni e latta».

Partendo dal presupposto che il medico «è sempre un po’ filosofo, che la filosofia è sempre stata la grande alleata della conoscenza medica e che è qualcosa di molto concreto, che bisogna immaginare una cosa nuova, sostituire un ideale consunto con un altro ideale», e sdoganando il pensiero di Emanuele Severino, il sociologo Ivan Cavicchi ha lanciato poi tutta una serie di spunti di riflessione:

  • l’idea di separare il concetto di tecnica da quello di tecnologia: il neuroradiologo è un tecnico? Il medico non è solo un tecnico, è un intellettuale che usa la tecnica, che oltre ad essere razionale deve essere ragionevole. La chiave, insomma, è il buon senso, che non appartiene alle macchine e agli algoritmi;

  • il rapporto tra medico e meccanica è una storia infinita, che va avanti da sempre. Le novità, semmai, sono l’enorme massa e l’enorme varietà di tecnologia di oggi;

  • il medico ibrido, il medico che diventa un simbionte perché non si può più prescindere dalla tecnologia «che – ha spiegato Cavicchi – non ci aiuta soltanto, ci obbliga a ridefinire alcuni concetti fondamentali come l’autonomia professionale, la libertà di scelta, la diagnosi. Ma la tecnologia ha un limite: è riduzionista rispetto al malato e chi recupera questi scarti? Il medico che è una testa pensante»;

  • la tecnologia è irreversibile, non si può più tornare indietro. Ma è anche retroattiva su chi la usa, trasformando la persona. La macchina, allora, va governata: la tecnologia senza il medico non può esistere e il medico senza tecnologia non può essere medico.

«Se vogliamo governare la tecnologia – ha concluso – non possiamo diventare macchine banali. Non dobbiamo lasciare, ad esempio, che le linee guida si trasformino da raccomandazioni ad obblighi, dobbiamo riformare la preparazione universitaria. Oggi invece che formare a scegliere bene, si forma a non scegliere più».

Il rilancio dell’idea di uscire dall’accerchiamento è arrivato, infine, dal professor Luigi Vero Tarca. «Bisogna uscire – ha spiegato – dalla logica difensiva, diventare propositivi. Bisogna uscirne come medici, ma non possiamo farlo da soli. Quel supplemento, quell’eccedenza che fa entrare le cose in armonia tra loro è l’anima».
Fondamentale anche un rovesciamento di prospettiva perché la scienza moderna ormai riconosce come realtà solo ciò che corrisponde ai propri parametri con il rischio che se la realtà non si adegua a questi parametri invece che cambiare le ipotesi, si cambia la realtà stessa, costruendo un mondo artificiale, in grado di obbedire alle leggi stabilite dalla scienza.
Il ribaltamento da fare è pensare la medicina come la cura della salute e non più solo come l’eliminazione della malattia. «La malattia – ha sottolineato – è ciò che si cura con un farmaco: se l’eliminazione della malattia dipende da un farmaco, chi lo ha inventato ha il potere su tutti gli altri. Il medico pensante, allora, deve vedere il sistema che si è creato, a cui appartiene, e capirlo».
La tecnica così intesa, insomma, rischia di far cadere la professione in mano al mercato e alla pubblicità. «Abbiamo fatto – si chiede il professore – il conto esatto tra i soldi per l’investimento tecnico e la resa in termini di salute? C’è una proporzione esatta o c’è una logica di altro tipo? Quanto l’eliminazione della malattia ha a che fare con la cura della salute?».

Tante le domande aperte, tanti gli spunti di riflessione. Argomenti che continueranno ad essere approfonditi durante i mercoledì filosofici e che troveranno poi nuova linfa nell’ultimo appuntamento del ciclo Medicina tra umanesimo e tecnologia con la due giorni che sarà organizzata il 17 e il 18 giugno nella Sala San Domenico dell’Ospedale civile di Venezia. Perché governare il cambiamento è possibile e per capire come farlo serve il contributo di tutti.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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