Il rapporto conflittuale medico-macchina serve. A ripensare il medico

Non c’è dubbio: è stata un grande successo la due giorni dedicata al tema Medicina tra umanesimo e tecnologia che si è svolta venerdì 16 e sabato 17 giugno nella Scuola Grande di San Marco a Venezia, organizzata dall’Ordine provinciale dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, attraverso il suo braccio culturale, la Fondazione Ars Medica, in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari e LAI, Libera Associazione di Idee, e il patrocinio dell’ULSS 3 Serenissima e del Comune.
Un grande successo sia sul fronte degli spunti di riflessione emersi e del dibattito, sia sotto il profilo delle lodi arrivate dagli illustri ospiti che hanno partecipato al convegno scientifico di sabato, primo fra tutti Sergio Bovenga, segretario della Federazione degli Ordini (FNOMCeO), che, colpito dall’iniziativa, si è impegnato a riproporla anche a livello nazionale.
«Questa due giorni – ha spiegato il presidente dell’OMCeO veneziano Giovanni Leoni nel suo benvenuto iniziale, sottolineando il lungo lavoro di preparazione servito – è il frutto di uno studio che è partito quando faceva freddo, l’anno scorso, e si è sviluppato per tutto l’inverno per arrivare oggi a un prodotto molto originale. Tutti noi abbiamo amato i film di fantascienza, soprattutto quelli di ispirazione medica: questo pomeriggio ne avremo un sunto con una guida ragionata molto particolare».

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Ad aprire le giornate di riflessione, infatti, è stato un simposio mai organizzato prima dall’Ordine e curato, in particolare, da Gabriele Gasparini, consigliere OMCeO e vicepresidente di Ars Medica: tanti spezzoni di film, introdotti dal regista Alessandro Bordina, a guidare le analisi che hanno visto, poi, alternarsi al tavolo dei relatori medici e filosofi insieme. Sul maxischermo della sala San Domenico sono passate, tra le altre, le immagini di Metropolis, film cult muto del 1927 praticamente introvabile, e di Frankenstein di Mary Shelley, la pellicola che più ha stimolato la riflessione. Ma anche Matrix, Star Trek, il cartoon Big Hero 6, il Quinto Elemento.
E non è così estemporaneo partire dal cinema per parlare di medicina perché, come ha spiegato il regista, sono state tante nel corso dei decenni le influenze tra due settori apparentemente così lontani. «C’è un rapporto stretto – ha spiegato Bordina – tra tecnologia cinematografica e campo medico. Tre i passaggi fondamentali: il primo, all’inizio, quando soprattutto fisiologi e neurologi restano affascinati dalle immagini offerte dai fratelli Lumière, dall’efficacia della documentazione resa possibile dalle immagini in movimento».
C’è, poi, grazie allo sviluppo di tecnologie specifiche pronto nel campo medico, un secondo step: è ora la volta del cinema di restare affascinato dalle immagini che i professionisti sanitari riescono a produrre. Ultimo passaggio, la commistione dei generi con le immagini prodotte dai medici usate direttamente all’interno dei film, di due generi in particolare, l’horror la fantascienza, accomunati dagli stessi meccanismi di meraviglia e di perturbamento dello spettatore.
«Questi generi – ha concluso il regista – spingono lo spettatore a leggere il film rapportandosi con la realtà che conosce. Qualcosa di familiare si trasfigura in qualcosa di estraneo. La tecnologia medica è un terreno ricco per questi due effetti, meraviglia e perturbamento: da un lato la medicina è presentata come una magia salvifica, dall’altro porta con sé inquietanti domande sull’umanità e sulla de-umanizzazione dei corpi attraverso le macchine».

Il pomeriggio è stato diviso in tre sezioni per analizzare separatamente tre temi specifici: come la tecnologia abbiamo cambiato il mondo e affascinato il medico, proiettandolo verso il futuro; come il medico possa diventare protagonista di questo futuro e, infine, il possibile ruolo del professionista nella medicina di domani, tra macchine e tecnica che diventano un fine e non più un mezzo.
La filosofa Tiziana Mattiazzi, socia LAI, chiamata con il medico di famiglia Roberto Ferigolli a condurre la prima sezione, ha riproposto il mito di Prometeo, che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini e che, per questo, per la sua superbia, sarà punito da Zeus che lo incatena a una rupe. «Che cosa centra – si è chiesta – Prometeo con noi? Siamo anche noi in qualche modo incatenati a una rupe: l’hybris, la superbia, il voler superare i nostri limiti umani, ci fanno assomigliare al titano».
È spesso proprio questa hybris a governare anche l’operato del medico, facendolo cadere in un errore madornale: separare l’arte medica dalla macchina. «Stiamo usando – ha sottolineato la filosofa – solo la macchina. Ma l’arte? Ma l’uomo? Ma il medico? Ci stiamo dimenticando qualcosa e questa dimenticanza ci sta costando cara. Bisogna recuperare l’intero. Non dobbiamo aver paura che da qui possa uscire un pensiero nuovo, capace di offrirci qualche soluzione. Il tema è quello della formazione del medico organizzata su categorie ormai sulla via del tramonto, un medico che si pone questioni etiche per affrontare le quali ha strumenti arrugginiti».
Si è soffermato, invece, sull’intelligenza artificiale e sui rischi che ne derivano il dottor Ferigolli. «È facile – ha spiegato – insegnare a una macchina a riconoscere un gatto, ma per rendere l’idea del gatto bisogna inserire nella rete neurale migliaia e migliaia di immagini di gatti. Gli esperimenti di intelligenza artificiale messi in rete, ad esempio da Microsoft su Twitter, sono falliti miseramente. Perché? Perché rischiamo di riempire l’intelligenza artificiale di immondizia. La domanda se l’uomo contemporaneo sia ancora soggetto all’hybris va lasciata cadere. Perché sarà la macchina a smascherarci. Quale menzogna la macchina ci sbatterà in faccia apprendendo da noi a ragionare? Quante illusioni sarà la macchina a far cadere?».

È, invece, un esercizio pratico – chiudere gli occhi e ripercorrere con la mente il dialogo di Frankenstein, appena visto, tra il medico e il mostro – quello che ha proposto in apertura del suo intervento la filosofa e socia LAI Bruna Marchetti, per lavorare in particolare sull’ascolto e sul rapporto medico-paziente, aspetti fondamentali della professione.
«Non è importante solo – ha spiegato – accogliere il paziente in un ambiente accogliente o con gentilezza. È importante che noi riusciamo a creare uno spazio all’interno di noi, che riusciamo, ad esempio, a sospendere il giudizio. E per questo serve esercizio. Siamo sempre in corsa, proiettati verso il futuro, facciamo fatica a stare qui e ora. Nel film, però, è proprio Frankenstein, il mostro, la creatura a rendere il medico consapevole di quello che è».
Più domande e spunti di riflessione che risposte, quelle offerte durante il pomeriggio dalla squadra degli filosofi. Fino a che punto, allora, possiamo sostituire pezzi? Siamo, come medici, consapevoli di quello che stiamo facendo? Cosa accade in me, medico, quando incontro la sofferenza dell’altro, del paziente? «La filosofia – ha aggiunto Bruna Marchetti, leggendo alcuni articoli del Codice Deontologico – serve proprio a questo: il medico deve coltivare la propria capacità di riflessione e di consapevolezza. A salvare Prometeo è il centauro, un essere mite, razionale, ma che tiene in sé anche la propria parte istintuale. Di fatto è il medico: non si tratta di ridurre la formazione scientifica o tecnologica, significa non seguire un pensiero unico, avere un’altra prospettiva». Due i punti di partenza: rinnovare la formazione e ripartire dalla relazione.
Un focus proprio sull’apprendimento del medico è stato proposto subito dopo dal giovane neoabilitato Jacopo Favaro, fresco di studi universitari. Una formazione che parte dallo studio delle scienze di base, conoscenze che si fanno via via sempre più complesse, integrandosi tra loro per riuscire a spiegare la complessità dell’organismo. «L’integrazione delle scienze di base – ha spiegato – porta alla conoscenza dell’uomo, che è maggiore della somma delle parti».
Ma anche le scoperte, la tecnica, la tecnologia viaggiano di pari passo, come la terapia genica «qualcosa di affascinante e avveniristico – ha raccontato – all’inizio del mio percorso di studi e oggi, invece, una realtà. Questo è allora il protagonismo dei nuovi medici come me, cresciuti con queste cose nuove, queste scoperte».
Ultima parte del suo intervento, infine, dedicata a un interessante riflessione sul libero arbitrio del no. «Noi non siamo – ha concluso il dottor Favaro – solo automi sofisticati perché possiamo annullare un’azione dopo averla pensata. La macchina avrà sempre algoritmi che ne guidano le azioni, non avrà mai il libero arbitrio di dire no. Il medico, a sua volta, si trasformerà in macchina se comincerà a ragionare solo per algoritmi e linee guida».

Alla filosofa e socia LAI Chiara Fornasiero e a Marco Ballico, medico, psicoterapeuta, docente IUSVE e membro del comitato scientifico dell’Ars Medica, è spettato poi il compito di spiegare come si è sviluppato il rapporto tra medici e macchine, un rapporto basato per lo più sulla contrapposizione.
«La parte creativa dell’uomo – ha spiegato la dottoressa Fornasiero, tornando a parlare anche di hybris posta all’origine della relazione con la tecnica – è sempre vista in opposizione alla fredda logica delle macchine, fino ad arrivare a una vera guerra tra l’umano e i robot. Ma è stato proprio l’uomo a decidere di portare avanti solo la logica del calcolo, la sua parte tecnica calcolante. Che altri tipi di sguardi sul mondo, allora, possiamo avere? Che altri tipi di stili di vita possiamo intraprendere per arrivare a un abbraccio, a un ascolto reciproco, ad accogliere tutte le varie sfumature dell’uomo? Servono nuove forme di pensiero e di azione: un rapporto più armonioso con la tecnica».
Ruolo di guastatore, infine, per Marco Ballico che ha lanciato alla platea tutta una serie di provocazioni, partendo da una premessa: quando si parla di questi temi il clima sembra sempre votato alla preservazione. «Ma in realtà – ha affermato subito – tanto è già accaduto. Molto di ciò che nei film sembrava fantascienza non solo si è già avverato, ma l’abbiamo anche superato. L’Unione europea definisce i robot “personalità elettriche”. Un domani ci potrebbe essere una consulenza con un software. E perché no? Noi siamo già in questo mondo. Ciò che non è chiaro è chi sia il beneficiario di questa commistione tra uomini e macchine».
Riflessioni a ruota libera che spiegano come l’atto medico sia un atto sociale, come il rapporto con l’individuo diventi sempre più periferico, come anche la tecnica abbia a sua volta un impatto sociale. «Se la scienza – ha aggiunto il dottor Ballico – è la portatrice della verità, chi possiede la tecnica ha la possibilità di plasmare l’ambiente sociale, la realtà». Il nodo, allora, diventa: chi detiene il potere «e se la salute è un bene di questo mondo, se questo mondo è posseduto dalla tecnica, allora la salute non è più relazione, diventa qualcosa da amministrare».

Tante, infine, le suggestioni – dal turn over delle verità scientifiche alla ricerca della colpa di questa situazione di stallo al massacro della vocazione – arrivate nello spazio finale del pomeriggio dedicato alla discussione a partire dall’idea, suggerita da Ornella Mancin, presidente della Fondazione Ars Medica, di come in realtà il medico sia già una macchina, lavori come una macchina, stretto nella sua azione e minato nella sua autonomia da protocolli e linee guida.
Una professione in crisi, quella del medico, chiamata a trasformarsi profondamente, come ha sottolineato Ivan Cavicchi. «Per superare il rischio – ha aggiunto – di essere macchine amministrate, la strada giusta è questo percorso di riflessione che qui a Venezia state facendo. La formazione deve essere l’altra strada: il medico deve essere reinventato perché ha a che fare con cose, la relazione o il rapporto con la tecnologia, che non gli vengono insegnate».

Il medico, insomma, non sarà mai macchina se ritorna alla propria parte istintiva, alla propria sensibilità affiancata alle competenze tecniche, se sarà capace di dire qualche no in più, se accompagna le conoscenze scientifiche con una profonda riflessione sul proprio ruolo e sul futuro che vuole costruire, se accetta il cambiamento senza subirlo, anzi governandolo, se rimodula la propria professione, partendo dalla formazione stessa.
Una giornata, questa, ispirata dal cinema che ha sollevato dubbi, lanciato provocazioni, lasciato domande aperte: che non ha dato certezze, ma un’indicazione precisa sì su quale sia la strada da seguire.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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