Bimbi violati: per vincere gli abusi serve un lavoro di rete

Sindrome del bambino scosso, esposizione agli stupefacenti (chemical abuse), trascuratezze gravi per ignoranza o negligenza, abusi sessuali, minori che in famiglia assistono, impotenti, alle aggressioni tra i genitori: è multiforme, ha mille sfumature e declinazioni, e purtroppo anche mille nefaste conseguenze, il fenomeno della violenza sui minori, indagato in un’intera giornata di studi, organizzata dalla Commissione Pari Opportunità dell’OMCeO veneziano sabato 7 ottobre in un convegno all’Istituto Berna di Mestre.
Ad aprire i lavori il presidente dell’Ordine Giovanni Leoni, che nel suo benvenuto ha sottolineato l’importanza del tema scelto in continuità con quelli precedenti, la violenza di genere e la medicina di genere, ma si è soffermato anche sulle bufale che spesso si leggono sulla stampa in merito a presunte radiazioni di colleghi no-vax – «che non possono provenire dagli Ordini molto rigorosi sui seri e complessi procedimenti disciplinari» ha detto – e sull’imminente consiglio nazionale straordinario della FNOMCeO, indetto per domani martedì 10 ottobre, per ragionare sulla linea da tenere dopo l’abbandono del tavolo sul ddl Lorenzin.
Sul palco anche i rappresentanti dell’Ulss 3 Serenissima e dell’Ulss 4 Veneto Orientale, che con la FNOMCeO, l’OMS, la Regione Veneto, la Procura della Repubblica di Venezia e il Comune hanno patrocinato l’iniziativa: complimenti per il tema scelto e l’avvio di questo tavolo di confronto sono arrivati dal direttore sanitario dell’azienda veneziana Onofrio Lamanna e da Mauro Filippi, direttore dei Servizi socio-sanitari dell’Ulss 4.

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È una sorta di galleria degli orrori quella sfilata durante la mattinata sul maxischermo dell’auditorium sotto gli occhi dei tanti medici, pediatri e odontoiatri presenti. Indispensabile, però, per lanciare un messaggio chiaro: questa violenza si può contrastare se la si affronta tutti insieme – personale e aziende sanitarie, forze dell’Ordine, autorità giudiziaria, assistenti sociali – facendo rete. Esattamente come è stato fatto nei workshop del pomeriggio quando poliziotti, volontari, medici ed esperti si sono riuniti in piccoli gruppi per guardarsi in faccia, conoscersi, approfondire casi, trovare percorsi condivisi d’azione.
Senza dimenticare ciò che ha sottolineato Claudia Pancino, dell’Università di Bologna, nel suo iniziale excursus storico: che la tutela dei minori è una conquista recente, moderna, che in passato, almeno fino all’Ottocento, «i bambini erano poco protetti, soggetti a incidenti di ogni tipo, che si ammalavano tantissimo sia nelle case dei ricchi sia in quelle dei poveri, che stavano spesso per strada, anche piccolissimi, a giocare o a vagabondare, che lavoravano nei campi».
Raccontando poi di come l’attenzione anche medica all’infanzia non fosse una priorità, di come alcuni medici «curassero il pianto come fosse una malattia, “la malattia che disturba la casa”», di come i più piccoli fossero vittime di violenze indicibili, soprattutto in situazioni degradate, o di riti protettivi e purificatori, di come i loro giochi contemplassero scarafaggi e topi vivi.
«L’amore materno – ha spiegato nelle sue conclusioni – era più nei gesti quotidiani che nei grandi discorsi. Non esisteva il nostro concetto di tutela e nelle case non c’erano spazi dedicati ai bambini. È successiva la costruzione ideologica dell’amore materno e del mito dell’infanzia felice. Gli adulti dovrebbero ricordarsi di essere stati, anche loro, bambini».

A Metella Dei, della Società italiana di Ginecologia Infanzia e Adolescenza, invece, il compito di inquadrare il fenomeno, a partire dalla positiva esperienza della Toscana, la prima regione italiana a istituire i centri antiabuso per i minori. «Era il 1992 – ha spiegato – e allora il percorso era tutto da costruire. Il centro aveva una doppia faccia: da una parte era aperto ai minori con consulenze programmate, dall’altra ad adolescenti e donne che subivano violenze. Abbiamo fatto errori: il gruppo di lavoro, ad esempio, era piccolo e non aveva l’appoggio dei colleghi che lavoravano in ospedale. All’inizio, poi, era fatto solo di medici. Non c’erano infermiere, ostetriche, altre professionalità».
Un errore che viene corretto rapidamente: da quell’esperienza, infatti, arrivano anche tante buone idee, a partire dalla necessità di creare subito una rete di consulenze di colleghi con competenze diverse, di formare i medici in contesti internazionali, dato che in Italia non c’erano esperienze simili, di usare la formazione stessa per allargare la rete.
Parlando di violenze sui minori, però, allora come oggi, la preoccupazione maggiore resta sempre la stessa: come identificare l’abuso. «Nell’85-90% dei casi di abusi sessuali, ad esempio – ha raccontato – i bambini venivano esaminati a distanza dai fatti, non c’erano reperti. Il minore aveva un disagio: poteva essere abuso, maltrattamento o altro. La ricerca della specificità è sempre stata complessa». Indispensabile, allora, la formazione per fare prevenzione secondaria: cioè riuscire a identificare l’abuso per fermarlo.
Altro punto di fragilità: la raccolta del racconto. «Non si sa – ha sottolineato la dottoressa Dei – chi raccoglie per primo le rivelazioni del bambino. Il rischio è che il racconto venga fatto ripetere in situazioni non protette, senza l’attenzione che merita chi racconta». Da qui i consigli pratici: registrare i dettagli, usare un linguaggio appropriato, fare poche domande e non suggerire ipotesi e risposte, ascoltare con empatia e mostrare fiducia.
Oltre alla prevenzione secondaria, però, bisogna attuare anche quella primaria: intervenire, cioè, nelle relazioni familiari con interventi domiciliari, di sostegno alla genitorialità, con gruppi di auto-aiuto, con progetti nelle scuole, «che funzionano – ha ribadito – e sono un ottimo investimento di risorse».
Tanti gli spunti di riflessione offerti da questa lectio magistralis: l’influenza, ad esempio, di internet con i tanti bimbi, anche piccoli, adescati in rete, la violenza prenatale – «se la donna subisce violenza in gravidanza, il feto ne avrà uno svantaggio fisico, ma anche sul sistema nervoso centrale» – gli screening, da ripensare, sulle mamme dei bambini, l’attenzione dovuta ai maltrattanti, di cui bisogna occuparsi, le fragilità degli adolescenti.
«La violenza sui minori – ha spiegato – non riguarda più solo chi lavora con i bambini. È un problema di salute che riguarda tutti. Bisogna ripensare una rete più estesa, fare formazione di base a tutti gli operatori sociali, raccogliere dati per sensibilizzare il mondo politico ad occuparsi del tema».
Il rischio di una traccia profonda, infatti, c’è: si trasforma per sempre la capacità di rispondere a eventi avversi, si modifica il sistema neurovegetativo, tutta l’area delle emozioni viene improntata a questo tipo di esperienza, si modificano, amplificandole, le vie del dolore che si usano per difendersi. «»Molti dei nostri pazienti – ha concluso la dottoressa Dei – sono stati bambini vittime di violenza. Noi dobbiamo contemplare questa possibilità. Sono persone che usano molto i servizi sanitari per dolori, prescrizioni di analgesici e psicofarmaci, che hanno poca stima di sé e tanta difficoltà a fidarsi di noi. Dobbiamo riconoscere i bambini che i nostri pazienti sono stati».

Immagini, in questo caso radiografie cerebrali, che dicono più di tante parole, invece, per la relazione di Melissa Rosa Rizzotto, dell’Azienda ospedaliera di Padova, che ha parlato delle conseguenze fisiche e psichiche della violenza sui minori. È stata lei, partendo da casi concreti, a illustrare gli effetti dei maltrattamenti più diffusi.
La sindrome del bambino scosso, ad esempio, che colpisce i lattanti dai 3 ai 6 mesi: i movimenti disordinati del capo – i piccoli vengono presi per la testa o per le gambe – provocano lesioni intracraniche, il tasso di mortalità è vicino al 10%, dato significativo, ma sottostimato perché viene intercettato solo un quarto dei casi. «Arrivano bambini – ha spiegato – con sintomi subdoli, vomito, crisi di pianto, irritabilità, con segni iperacuti, bradicardia o cianosi, con esiti in paralisi cerebrali. Non dimenticate, poi, che l’anamnesi del genitore può essere falsificata. Noi, purtroppo, facciamo sicuramente diagnosi tardive. Fare una diagnosi bene e precoce può salvare la vita di quel bambino».
La dottoressa Rizzotto ha parlato anche:

  • di bambini con trascuratezza grave: chi, cioè, non ha ricevuto le cure amorevoli, la nutrizione o gli stimoli adeguati, i cui sintomi sono una scarsa crescita, le infezioni ricorrenti, la difficoltà ad alimentarsi e gli incidenti ripetuti e molto gravi;

  • di chemical abuse, cioè di minori in cui c’è una diffusione di sostanze stupefacenti trasmesse dal latte materno o fatte assumere direttamente, sostanze che provocano danni neurologici simili ai microinfarti delle demenze negli anziani, e che porteranno questi bambini ad avere più possibilità in futuro di sviluppare tossicodipendenze.

«Un abuso – ha concluso – che è sempre più diffuso. Se tra il 2002 e il 2008 avevamo un caso ogni 2 anni, tra il 2013 e il 2016 abbiamo registrato 40 casi: 10 all’anno».

La rete tra professionisti è tornata, poi, protagonista nell’intervento di Monica Cappellari, del Servizio Politiche cittadine per l’Infanzia e l’Adolescenza del Comune di Venezia, che ha spiegato come, in che tempi e con che risultati l’amministrazione pubblica si attivi per la tutela dei minori abusati, quali siano i compiti del Comune in caso di violenza sui più piccoli. «Sarebbe molto utile per noi – ha detto subito – lavorare con voi medici. Bisogna incentivare l’integrazione socio-sanitaria».
Nella sua relazione ha raccontato degli strumenti messi in campo in questo senso dalla Regione, delle linee guida approvate nel 2005 e riformulate nel 2008, delle tre fasi della presa in carico: la segnalazione, la stima e la valutazione delle informazioni ricevute e la conseguente progettualità per realizzare gli interventi. «Ogni segnalazione – ha sottolineato – va verificata. Bisogna capire il disagio del bambino, facendo un bilancio tra fattori di rischio e azioni di prevenzione. È fondamentale avere un gruppo di lavoro multiprofessionale e multidisciplinare, lavorare in rete, co-progettare».

Ad approfondire, invece, il tema della violenza assistita – aspetto ancora molto sottovalutato, dato che, ad esempio, non esiste una legge in proposito – è stata chiamata Roberta Maschio, referente regionale del CISMAI, il Coordinamento italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso dell’Infanzia. «Il bambino testimone – ha chiarito subito – che assiste a una violenza, è anche vittima. Per definizione la violenza assistita si verifica quando i bambini sono spettatori di qualsiasi forma di maltrattamento espresso attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative, adulte o minori».
Una violenza, insomma, in qualche modo indiretta, non subita in prima persona, ma, ad esempio, dalla madre o dai fratelli. I bambini, poi, possono esservi esposti direttamente, quando i soprusi avvengono in loro presenza, o possono averne conoscenza indiretta quando qualcuno gliene parla o quando ne percepiscono gli effetti: quando vedono, ad esempio, la casa devastata dal genitore violento, pur non essendo stati presenti alla devastazione, o quando vedono lividi, ferite, vestiti strappati, oggetti rotti. È violenza assistita, infine, anche quando vengono a conoscenza, o assistono a maltrattamenti, sevizie e abbandono degli animali presenti in famiglia, con cui si è creata una relazione affettiva.
Tanti gli effetti che questo tipo di violenza comporta: innanzitutto sulla relazione madre-figli, nel caso il maltrattante sia il padre. «Le madri che subiscono violenza – ha sottolineato la dottoressa Maschio – sono traumatizzate e hanno paura che i loro figli vengano allontanati. Sono madri che fanno paura ai loro bambini: il legame di attaccamento è minato. Sono madri che perdono autorevolezza: i bambini pensano di essere loro a dover proteggere e rassicurare. C’è un’inversione dei ruoli, ma anche dei valori perché i bambini possono percepire come normale il comportamento autoritario e violento visto dal padre». Con il rischio, concretissimo, di interiorizzare questo modello maschile violento.
Tanti anche gli effetti sui figli. «Riguardano soprattutto – ha concluso – il tipo di attaccamento che sviluppano: evitante, ansioso ambivalente e disorganizzato. Nel primo, non avendo trovato sistemi di conforto, i bambini tendono a volersela cavare sempre da soli; nel secondo sono deboli, si sentono sempre in pericolo, hanno paura di tutto; nel terzo chiedono l’attenzione, la cercano in modo spesso anche fastidioso e invadente e, una volta raggiunta, la rifiutano. Sono bambini in fuga, bambini frammentati. C’è una disgregazione emotiva: vivere sotto stress cronico li porta, da adulti, ad avere disturbi dell’umore e del comportamento».

L’ultima parte della mattinata è stata, infine, dedicata a un altro aspetto concreto degli abusi sui minori: quando far intervenire l’autorità giudiziaria? Quando si deve procedere d’ufficio? Quando è richiesto l’intervento delle forze dell’Ordine o dei magistrati?
La prima a spiegarlo, ponendo poche incisive domande – Come? Quando? Cosa? Perché? A chi? – è stata Anna Aprile dell’Università di Padova. «Tra i nostri doveri di medici – ha detto – c’è anche quello di collaborare a fini di giustizia. Quando si agisce in veste di pubblico ufficiale è obbligatorio informare l’autorità giudiziaria. Secondo l’articolo 365 del Codice Penale, commettiamo un reato se nel prestare assistenza omettiamo di riferire all’autorità giudiziaria. Il problema vero, però, è che i bambini non arrivano con un cartello con la scritta “maltrattato”, arrivano con una situazione clinica da valutare. Bisogna capire come inquadrare questo segno clinico nella prospettiva di un’ipotesi di reato».
Questo, allora, è il punto focale e per spiegarlo meglio la dottoressa Aprile proietta sul maxischermo alcuni casi di ustione addominale, spiegando come la prima fosse in realtà una dermatite, la seconda provocata da trascuratezza, la terza una causa accidentale, la quarta da maltrattamento fisico. «Ma quando sono arrivate – ha aggiunto – erano tutte uguali. Non sempre, allora, la diagnosi clinica è immediatamente traducibile in termini significativi sotto il profilo della rilevanza giuridica». È qui che entra in gioco la medicina legale clinica: un lavoro di squadra per prendere in carico il caso, studiarne la clinica e cercare di capirne le origini.
L’esperta ha poi spiegato come denuncia e referto si facciano in modo preciso, descritto dal Codice di Procedura Penale, e di come il referto debba essere trasmesso entro 48 ore e la denuncia senza ritardo. «Anche qui, però – ha spiegato – c’è un problema: da quando partono le 48 ore? Da quando ho il sospetto diagnostico di essere davanti a un abuso o da quando ho il sospetto fondato? Che margine di discrezionalità ha il professionista sanitario? Non deve prevalere la paura di comunicare tardi per espellere subito casi scottanti: la segnalazione deve venire, e torniamo allora alla medicina legale clinica, da un inquadramento clinico. E non deve prevalere neanche il nostro timore di essere chiamati a rispondere, la paura della responsabilità».

Ultime a salire sul palco Lucia D’Alessandro, oggi magistrato attivo nella Direzione Distrettuale Antimafia, ma che per tanti anni si è occupata proprio di processi per violenza e abuso sui minori. Anche lei ha sottolineato subito la necessità di creare una rete, un dialogo, un confronto tra tutte le parti in causa. «Ne sono da sempre – ha detto – una sostenitrice. Senza una rete non può esistere un adeguato ed efficace contrasto all’abuso. Quanto maggiore è la conoscenza tra gli operatori, tanto maggiore sarà il risultato in termini di efficacia sia per la cura, sia per la repressione penale dell’autore dell’abuso. Il dialogo tra gli interlocutori del settore è fondamentale. Se avete un dubbio, non fatevi scrupolo: contattate il pm di turno o le forze dell’Ordine, sono a vostra disposizione 24 ore al giorno. Decidete insieme già nella primissima emergenza». Il magistrato ha anche spiegato come ci siano oggi nelle procure gruppi di lavoro specializzati, dipartimenti creati ad hoc, task force di esperti attivi su questi temi.
Si è soffermata anche su un tema già affrontato in mattinata: l’ascolto del minore. «Bisogna evitare al bambino – ha suggerito – lo stress della rievocazione. Spesso, se il bambino non riesce a confidarsi con la mamma, sono proprio i sanitari i primi interlocutori, i ricettori della rivelazione. Il vostro ruolo è focale per aiutare noi e per arginare il problema dei falsi abusi. I medici devono stare attenti a come recepiscono la rivelazione, a non contaminarla con domande suggestive. Noi a scegliere il miglior iter processuale, i migliori consulenti tecnici».

È proprio lei, alla fine della mattinata, a lanciare una proposta concreta: un protocollo sulla materia, un tavolo di lavoro a cui sedersi tutti insieme per discutere e trovare percorsi efficaci di soluzione. È, nel piccolo, ciò che si è tentato di fare nel pomeriggio quando piccoli gruppi di lavoro – composti dalle coordinatrici della CPO Maria Pia Moressa, Manuela Piai, Vincenza Zanoboni, Cristina Mazzarolo e Alessandra Cecchetto, ma anche da esponenti delle forze dell’Ordine e dagli operatori del Centro Antiabuso provinciale La Lanterna – si sono riuniti per discutere casi concreti proposti dai 5 primari delle pediatrie degli ospedali veneziani, che hanno coordinato i lavori dell’intero convegno:

  • Pier Giuseppe Flora, direttore a San Donà e Portogruaro, ha proposto un caso di sindrome da bambino scosso;

  • Mario Lettere, direttore a Chioggia, quello di una ragazzina che più volte si è presentata in pronto soccorso per una serie di motivi diversi, tra cui una forma di anoressia preoccupante, che non si è opposta al ricovero e che nel giro di una settimana ha ripreso peso;

  • Maurizio Pitter, direttore dell’Ospedale Civile di Venezia, un caso «di cui – ha detto – non ho ancora una diagnosi, sospetto una sindrome da Münchhausen»;

  • Giovanni Battista Pozzan, direttore dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, il caso di una quindicenne con sospetto disturbo alimentare, i cui sintomi spariscono appena ricoverata e ritornano una volta a casa;

  • Luca Vecchiato, direttore dell’Ospedale di Mirano-Dolo, con il caso si una neonata risultata poi positiva, tra le altre cose, alla cocaina.

Oltre alle lezioni frontali, insomma, tanta concretezza in questa giornata di studi intensa e particolare. «L’obiettivo di questo convegno – ha sottolineato Alessandra Cecchetto a nome di tutta la Commissione Pari Opportunità che lo ha realizzato – è costituire una rete, sapere a chi rivolgersi, conoscere i magistrati, sapere come funziona il tribunale, quali siano i possibili passaggi. Vorremmo poi che il medico acquisisse più consapevolezza e tranquillità: molte volte nella situazione concreta è difficile operare. Per questo abbiamo voluto dare strumenti concreti per capire quando è necessario fare una denuncia, quando c’è un obbligo d’ufficio. L’obiettivo è sempre la tutela della salute, salvaguardare il minore per consentirgli uno sviluppo diverso da quello che gli si prospetta nella spirale di violenza in cui vive».

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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